Si trattava allora di Baldini & Castoldi, mentre da qualche anno il binomio si è accresciuto: Baldini Castoldi Dalai. Perché l'impronta tradizionale della casa editrice milanese è stata opportunamente aggiornata. Una passione familiare: «Come nipote di Paola Dalai, per anni numero 2 della Garzanti, e di Oreste del Buono, fratello di mia madre, nessuno ha voluto assumermi nell' editoria: un caso di nepotismo all' incontrario». Finché nell'86 un «cacciatore di teste» per conto della Mondadori si ricorda del manager amante dei libri: «Leonardo e Tatò mi assunsero per dirigere l'area Ragazzi e Illustrati. Così, durante la guerra di Segrate, i nemici di Leonardo ogni sei mesi si proponevano di farmi fuori».
Due anni dopo arriva la proposta di Vitta Zelman e Fantoni, soci di maggioranza dell' impero Elemond: passare all' Einaudi come amministratore delegato. «Accettai, mettendo su un gruppo formidabile, con Piero Gelli, mio zio Oreste, Davico Bonino. Risanammo i conti, ma sedere al tavolo del mercoledì senza timori reverenziali non era uno scherzo». Al tavolo di via Biancamano, Dalai capisce che dovrà fare le sue battaglie: «Riuscimmo a tenere Sebastiano Vassalli, tornò Corrado Stajano e venne Nando Dalla Chiesa.
Einaudi non voleva portare Volponi allo Strega, ma alla fine ci riuscimmo e Volponi vinse». Volponi? «Straordinario: ti prendeva a schiaffi, ma ti voleva bene». E gli stranieri: McEwan, Yehoshua, Ishiguro «Trattenere McEwan non fu facile, perché da anni non riceveva le royalties: era freddo, non simpatico. Provammo anche con Rushdie, ma senza successo. Il rilancio, però, lo si faceva con gli italiani». E la saggistica? «Mah, andai da Renzo De Felice: nel piano editoriale c' era il quinto volume del suo Mussolini, ma mi disse: "È da mesi che non vedo nessuno dell' Einaudi, mi dispiace ma il libro non c' è". Purtroppo l' ho conosciuto solo nell' ultima parte della sua vita, lo ricordo nella sua casa di Monteverde, che mi parlava di archivi, di fondi ancora non studiati. Mi affidò il suo ultimo libro scritto con Pasquale Chessa Il rosso e il nero». I rapporti con Giulio? «L' unico rapporto possibile, c' era una persona che doveva decidere e quella ero io. Lo incontrai nella sua mansarda a Torino, non enorme ma molto bella. Ci annusammo: mi vedeva solo come uomo di numeri, per me lui era il mito della mia generazione, cresciuta a pane e rate Einaudi...». L' uomo di numeri non poteva avere un rapporto facile con l' editore dello Struzzo: «Certo che no, potrei raccontare tanti episodi di scortesie e sgarbatezze, ma non è il caso». Per esempio, quando si decise di avviare i Tascabili? «Fu la scoperta dell' acqua calda. Gli Struzzi erano una collana di prezzo medio-alto che lasciava spazio ad una collana di tascabili di primo prezzo e decidemmo di affidarla a Oreste del Buono. Ricordo una riunione con Giulio, Cerati, Natalia, Garboli, Cases, Del Giudice, Prosperi. Mi chiedevano: "Ma volete fare qualcosa tipo i Penguin o Les Belles Lettres?». No, risposi, vogliamo fare semplicemente gli Oscar e la Bur Due ore di discussione degne di diventare un film di Woody Allen. Fu una prova muscolar-intellettuale. Pur di uscire con i Tascabili, accettammo le prime orribili copertine, ma ne venne fuori un successo pazzesco». E molte polemiche, a cominciare da quelle che seguirono alla pubblicazione delle Formiche di Gino e Michele: «Fu una rottura voluta. Del Buono disse: "Se avessi previsto le conseguenze, quel libro non lo avrei pubblicato". Invece per me la rottura era inevitabile». Una parentesi. Oreste: «In casa ne ho sempre sentito parlare come di un mostro sacro. L' avevo incontrato poche volte, e me lo ritrovai in Mondadori. Lui mi guardava strano. Probabilmente si chiedeva: che cavolo ne può sapere questo qui, di editoria? Allora lavorava ai Gialli e faceva mille altre cose, come sempre. A un certo punto riuscì a dirigere gli Oscar Mondadori al mattino e la Bur al pomeriggio». Niente di meno einaudiano che il Conte Zio: «Le riunioni con Oreste le facevo in macchina, tra Milano e Torino. Lui doveva venire con me in casa editrice, ma il più delle volte appena arrivati a Torino diceva: "Che ci vengo a fare, tanto ti ho già detto tutto...". Lo accompagnavo in stazione e ripartiva subito per Milano». Un rapporto idilliaco, tra zio e nipote, che continuerà alla Baldini & Castoldi? «Altro che idilliaco! Si dimise una trentina di volte, per le ragioni più assurde». Per esempio? «Io sono interista, lui era milanista sfegatato. Un lunedì dopo il derby gli dissi: "Ve ne abbiamo date due...". Risposta: "Lo sapevo che tua madre era una poco di buono, non chiamarmi più nella vita". Per sei mesi non mi rispose al telefono».
Torniamo alle Formiche, le creature di Oreste. Nessuno poteva immaginare che quel libretto di battute potesse ottenere un tale successo. In casa editrice si formò la fronda dei vecchi einaudiani che vedevano quelle bestiole nel catalogo dello Struzzo come un' eresia: «Scoppiò un caso anche sui giornali: chi si schierava contro e chi a favore. Biagi intervenne per difendere Oreste. Ma alla fine pagammo le conseguenze di quel papocchio: eravamo diventati troppo ingombranti per gli azionisti. E pensare che dopo il successo Einaudi voleva tenersele». Invece passano alla Baldini, le cui redini vengono affidate, nel frattempo, allo stesso Dalai, transfuga dello Struzzo. Siamo nel ' 91, la B & C è una sigla sotto il cappello Mondadori e punta soprattutto sui comici: «Con l' arrivo di Berlusconi, trattai con Tatò e passai in maggioranza ma pagandola carissima». Per Dalai è la svolta. Nel ' 94 arriva il ciclone Tamaro: «Era corteggiatissima. La sentii nominare la prima volta allo Strega. A proposito della Tamaro e delle dichiarazioni di De Michelis nei miei confronti, trovo ancora che dopo tanto tempo decontestualizzare il motivo di una serie di reciproci "scambi di cortesie" non faccia altro che confermare la scorrettezza di De Michelis». Come andò l' acquisizione della Tamaro? «Il nostro editor era Antonio D' Orrico, il più straordinario flâneur che abbia mai conosciuto. Fu lui a parlare con Laura Lepri, editor della Tamaro, e così riuscii a incontrarla. Ci fu un' asta e la nostra offerta non era la migliore, ma scelse noi, sicura del successo». E infatti... Quella editoriale è una storia di strane congiunzioni astrali, di amori che sembrano indissolubili e di strappi improvvisi. La rottura tra Dalai e la Tamaro si consuma presto: «Si produsse in lei una decisa conversione ideologica. Passando da Va' dove ti porta il cuore a Anima Mundi, quella che prima era una radicale convinta di sinistra, femminista molto dura, pur rimanendo molto dura, si spostò verso un cattolicesimo intransigente. I nostri rapporti ne risentirono molto». Anima Mundi non ottiene il successo sperato e il sodalizio va a pezzi: «Non era più la stessa persona». Sempre la stessa persona è rimasto invece Faletti: «Le sue tante vite, di attore, cantante e scrittore, gli hanno regalato un' abitudine al rapporto con il lettore e con il successo. È un istrione che ama il suo pubblico e ama essere riamato. Dunque, senza fatica, è diventato quello che il pubblico vuole che sia». Con tanta strada alle spalle, prima di arrivare al bestseller: «Quando faceva Vito Catozzo, era uno dei tanti comici che abbiamo pubblicato, aveva venduto bene, circa 50 mila copie. A un certo punto mi mandò dei racconti. Gli dissi che non era il miglior modo di esordire e gli consigliai di scrivere un romanzo». Faletti accoglie il suggerimento, si mette al lavoro e nel 2001 il romanzo è pronto: «Gelli fece un editing molto leggero. Oreste lo approvò, gli fece coraggio e lo sostenne. Era una scommessa, perché allora persino i thriller americani in Italia avevano scarso successo». Ed ecco un nuovo incrocio astrale: «Quando il libro uscì, Faletti ebbe un ictus, dopo quindici giorni, mentre lui era in rianimazione, Sette gli dedicò la copertina con l' articolo straordinario di D' Orrico: Antonio non era uscito bene dalla casa editrice e dunque per me era l' ultimo critico che potesse interessarsene. Fu una sorpresa e il resto avvenne come un torrente in piena»