La tv fa piangere. Ridiamoci su

La tv fa piangere. Ridiamoci su

La realtà è già piena di cretini. Perchè inventarsi i reality?
Un intervento degli autori di Zelig sul numero 51/52 di A - 30 dicembre 2008

 Zelig è formalmente concluso. Undici puntate a cui faranno seguito tre trasmissioni di montaggio, gli Svisti e mai visti e quattro Speciali a gennaio. Ma è già tempo di consuntivi e ci sentiamo in diritto e un po’ in dovere di parlarne. Lo facciamo volentieri vista la grande confusione che c’è oggi su tutto ciò che concerne la tv. 

Sono tempi in cui sui giornali ci si chiede inutilmente se e perché la satira è morta o peggio, magari fingendo distacco, ci si ingegna a glorificare il successo di svariati reality. Temiamo che nel bailamme imperante tutto finisca senza distinguo nel calderone auditel dei numeri.
La televisione che preferiamo è quella che non mischia con malizia realtà a finzione, che non fa credere che la finzione sia realtà. E’ quella che invece fa spettacolo, là dove la realtà viene “rappresentata” (deformata, esasperata, bistrattata, ma comunque rappresentata) in un gioco molto chiaro con il pubblico, che è quello che da millenni caratterizza il rapporto tra palco e platea. Non c’è doppiogiochismo, voyerismo, né spaccio di Verosimile (?) per Vero (!). Niente imbarazzati naufraghi, niente ozianti divanisti ingabbiati in case improbabili, niente improvvisati “spioni” alle prese con discutibili prove di sopravvivenza. Azzardiamo: è probabile che molto dell'appiattimento culturale delle nuove generazioni passi anche da quel tipo di tv, che offre modelli di vita livellati al basso, con dinamiche di gruppo adulterate, luoghi improbabili, personaggi a volte molto modesti, culture svuotate ad hoc. Senza essere stati giovani fenomeni, ma tutto sommato ragazzi normali, siamo felici di essere cresciuti con Cent’anni di solitudine e Io e Annie: quelli erano i nostri modelli...
In un’interessante articolo uscito due numeri orsono su A (48) a firma della brava Nicoletta Melone si parla di Zelig e dei suoi personaggi che spesso rappresentano, forzando in chiave comica, il mondo che c’è fuori. In particolare del Discotecaro interpretato da Giovanni Vernia e del giovane marginale Pino dei Palazzi di Giancarlo Calabretta, in arte Kalabrugovic.
“C’è poco da ridere. In fondo”, chiosa Nicoletta osservando con un po’ di apprensione che la nostra società in questi anni è cambiata in peggio. E’ vero, non c’è da stare allegri. Ma il nostro compito di comici è quello di cercare di far ridere sugli stereotipi del sociale, per esempio. E Pino dei Palazzi e il Discotecaro sono figure ben identificabili nel variegato mondo giovanile.
Nicoletta Melone cita oltre ai nostri Vernia e Kalabrugovic, due comici d’antan: Braschi e il primo Abatantuono. Li conosciamo molto bene perché con entrambi abbiamo condiviso strade artistiche e non. E non vengono citati a sproposito: in qualche modo i nostri personaggi di oggi sono una parziale evoluzione (involuzione nella vita reale) del Paninaro e del Terroncello.
Braschi-Vernia. Seppur con origini artistiche diverse (il Paninaro era frutto di un’intuizione a tavolino di Ricci poi proposta a Braschi, il Discotecaro nasce direttamente da un’idea di Vernia) vantano una serie di analogie. Per esempio entrambi i comici sono molto distanti dai personaggi che rappresentano in scena: Enzo, ex impiegato in odore di mobbing e laureato, ha pubblicato diversi saggi sugli Indiani d’America. Giovanni è ingegnere, ha incarichi lavorativi “alti” e deve ancora decidere del tutto, a questo punto, cosa farà da grande.
Kalabrugovic-Abatantuono. Tutti e due provengono dalle periferie di questa nostra Milano multiculturale, ormai davvero simile a una grande metropoli. Giancarlo è di Bollate, dove i Palazzi esistono davvero e dove il mondo che descrive (e che conosce bene) fa parte dell’aria che ha respirato fin dall’infanzia. Diego viveva al Giambellino, nelle case minime dove brava gente e gente più marginale avevano imparato a coesistere. Racconta Abatantuono che la differenza tra un onesto camionista-padroncino e un po’ meno onesto ladro di camion, che abitavano casette confinanti, la si poteva dedurre da dove era posteggiato il camion. Se stava davanti alla casa del camionista, tutto a posto, se stava cinquanta metri più in là, cioè davanti al ladro, voleva dire che il vicino di casa glielo aveva rubato… Divertente intuizione del comico nel descrivere il vero!... Non era e non è poi così difficile costruire monologhi o personaggi, guardandosi intorno, o dentro, o di fianco…
A ben vedere c’è un sottile e infinito gusto dell’analisi critica in chiave comica e quindi satirica, persino autoironica, nel cercare personaggi, situazioni, disagi, contraddizioni, scempi della società reale, ingegnandosi a costruirne numeri che facciano sorridere o ridere. C’è il piacere irresistibile – quello non lo abbiamo mai perso – della denuncia in minore di un paese “a vita bassa”, come dice Arbasino. E così Zelig, che passa per una trasmissione comica e disimpegnata, deve, è obbligata a andare a parare là dove c’è materia per ridere. E cioè là dove ci sono i discotecari e i Pini dei Palazzi, ma anche i tronisti e gli assessori un po’ cialtroni e confusi, le mamme alle prese coi figli adolescenti, le cafonaggini dei cantanti neomelodici improvvisati, le fregole degli intellettualini, le famiglie che vorrebbero che la figlia facesse la velina, ecc.
Insomma, per farsi capire e apprezzare dalla gente, Zelig deve andare ad attingere in quello che circonda la gente o in quello che la gente è. Facciamo comicità, questo è il nostro obiettivo primario. Forse facciamo anche satira sociale, visto che la satira è poi una branca del comico. Ma cerchiamo di farlo con la lievità che richiede la nostra professione. Altrimenti soccomberemmo nel rischio che corre chiunque si accinge a fare ridere: prendersi troppo sul serio.